21.05.2009

Discursul Domnului Ambasador la Vatican, Marius Lazurca, 16 mai 2009 la Bolonia

Reverendo Padre Rettore,
Eccellenza Reverendissima Monsignor Siluan,
Reverendi Padri,
Illustrissimo Professore Balaceanu-Stolnici,
Chiarissimo Signor Console Generale Pineta,
Signor Console Onorario Teseleanu,
Signore e Signori,

Conviene incominciare questo breve intervento con una parola di ringraziamento indirizzata a tutti coloro che hanno reso possibile questo evento. Esprimo una parola di gratitudine al reverendo padre rettore Luca Zottoli, per aver deciso di accogliere cosi calorosamente questa iniziativa. Ringrazio il console onorario della Romania, George Teseleanu, il reverendo padre Marinel Muresan, gli altri organizzatori della conferenza – l’Associazione Democrazia e Libertà e l’Associazione culturale Vasile Alecsandri, nonché le istituzioni che gli hanno sostenuti nella loro iniziativa. E dunque con sentimenti di gratitudine che presento qui mia modesta contribuzione per mettere in luce la figura – gia molto luminosa per essa stessa – del Mons. Ghika. La mia relazione avrà un costante punto di riferimento: il volume recentemente pubblicato di corrispondenza tra Vladimir Ghika ed il suo fratello minore, Dimitrie Ghika.
Come fare la sintesi di una figura senza rischiare la caricatura, quanto fosse essa raccolta e pia? Come rendere giustizia all’uomo nella sua pienezza, a tutta una vita, come anche ad una morte da martire, quando si è limitati dal breve tempo, dal manco di documenti, dall’involontaria ingiustizia della memoria? Il più saggio e di lasciar parlare l’uomo stesso ed ascoltarlo.
Trovo in un manoscritto autobiografico del 1902 questo paragrafo illuminante: “Vita completamente interiore: oltre i lutti e le malattie, nessun evento importante; (dentro) nell’anima, tutte le tempeste, tutte le metamorfosi, tutte le inquietudini, tutti i combattimenti”. Penso che sia proprio questa la traduzione in linguaggio umano della vocazione di santità: un appello di vivere la vita sconosciuto da tutti, conosciuto da Dio solo; sconosciuto prima dai parenti, amici, fedeli; sconosciuto, poi, da se stesso, nel dimenticare le proprie gioie ed i propri dolori semplicemente umani, nell’abisso ultimo del dono di se. “Scappa, taci, nasconditi”, dice Dio a Sant’Arsenio il Grande, uno dei numerosi aristocratici che rispondono, nel IV-o secolo, all’irresistibile richiamo del deserto egiziano.
Seguendo dunque una venerabile tradizione, il Principe Ghika si sentirà invaso, fin dall’adolescenza e secondo le proprie parole, da “una fede che lo lavora e che lo porta là dove essa desidera”. Lui non rivendica questo desiderio di rimanere anonimo come una virtù personale; umile, lo attribuisce alla felice influenza dei suoi: ” Devo a mia madre, scrive lui, tutto quello che ho come delicatezza dei sentimenti…a mio padre il pudore del far bene, al mio fratello minore e alla sorella che ho perduto, l’antipatia profonda per qualsiasi ostentazione, soprattutto per l’ostentazione nella virtù”.
Secondo un’antica tradizione cristiana, la vera umiltà è la sola virtù “senza nome”: devi conquistarla senza renderti conto e conservarla senza darli speciale importanza. Pudore del bene, l’umiltà accompagna tutte le altre virtù, certificando cosi la verità del loro bene. Non risulta per ciò sorprendente se si trova questo “cancellare di se stesso” perfino nei gesti i più comuni del Monsignore.
Dalle lettere indirizzate al suo fratello veniamo a sapere poco e come per rimbalzo in merito alle sofferenze del Principe. Quello che l’interessa e di non allarmare suo fratello, ma anche di non oscurare con le proprie pene, i fastidi, visti come più importanti, degli altri. Le sofferenze del Monsignore non sono però sempre silenziose. Rese talora evidenti dalla loro stessa drammaticità, esse si vedono attenuate dal senso dell’umorismo: il mettere a posto del “mezzo chilo d’intestini” non è un dettaglio crudo di patologia, ma piuttosto la prova dell’ammirevole “ironia verso se stesso” dalla quale fa uso con tanta grazia.
Le specificità di una dittatura nascente hanno diritto anch’esse ed abbastanza spesso, alla stessa ironia del Principe: i disaggi dell’alloggio, per i quali, a dire la verità, il Monsignore non si lamenta, sono attribuite alle leggi assurde “che prendono case, camere e cubi d’aria”. Costantemente sorvegliato, il Principe Ghika sente di avere “domato i poliziotti”, i carcerieri che restiamo sorpresi a trovare presentati quali “brave persone, con tutto il lavoro che sono obbligati a fare”.
Il Monsignore non si attarda mai sulle pene che subisce. Fa di esse una breve cronica, all’uso dei suoi corrispondenti; oltre questa, fa un inventario per se stesso, per servirsene nella meditazione sulle cose ultime. Di questa maniera converte le sue sofferenze di passaggio in un bene eterno: ricordarsi che essere drammaticamente “sospeso ad un’eventualità quotidiana” non rappresenta un segno di paradossale e dubbia superficialità, ma la testimonianza del suo completo abbandono a Dio.
Le lettere descrivono dunque un continuo processo di trasfigurazione, una specie di auto-proiezione oltre l’orizzonte di una verità consolatrice. Ma, nell’ambito stesso della trasfigurazione, il primato degli altri resta sempre forte, in quanto le sofferenze del Monsignore acquisiscono il loro vero significato quale redenzione degli errori degli altri per primo, e dei suoi solo dopo: “Ho offerto al buon Dio, scrive lui, tutte le mie piccole miserie, per tutti voi, come anche per il mio grande bene”. Ed ancora una volta questo stupendo oblio di se stesso che si manifesta quale senso dell’umorismo, quando descrive di aver ricevuto la comunione sul tavolo della sala operatoria: “Ho avuto nello stesso tempo l’addome aperto, gli occhi aperti ed il cielo aperto”.
Con sua nazione, succede che il Monsignore non sia sempre tenero. Attristato dal “ vuoto più completo delle cose spirituali”, dalla “mania deformante degli abitanti di Bucarest”, dalla superficialità dei cospiratori di fortuna e dalla loro vigliaccheria quando sono sorpresi, il Principe non si sente comunque distaccato dal suo popolo. Lui chiede la preghiera sentita del suo fratello per non dimostrarsi “al di sotto del livello richiesto quale…romeno”. Nella catastrofe, l’amore del Monsignore per la sua patria non è quello di una vittima. Il destino dell’illustre Principe non rappresenta la sconfitta del bene nella storia, ma piuttosto il fallimento prevedibile di tutta impresa umana semplicemente secolare, separata della sua sorgente eterna.
Come il suo Signore e Dio, Vladimir Ghika ha trionfato sul mondo e sulla storia. La nostra presenza qui ne costituisce un’eloquente testimonianza.

Vi ringrazio,
Marius Lazurca

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